C’è stato un tempo in cui passavo il Natale in chiesa, al pranzo organizzato dalla comunità di Sant’Egidio. Un’esperienza che, almeno in apparenza, sembrava incarnare il vero spirito natalizio: cucinare per chi vive per strada, chi è solo o non può permettersi il lusso di un pranzo delle feste. Niente abbuffate, niente brindisi interminabili: solo un modo più umano – o cristiano – di vivere il Natale.
Eppure, sentivo un certo disagio di sottofondo che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Servivo ai tavoli, scambiavo sorrisi e parole con anziani soli o con persone arrivate da paesi lontani, portandosi dietro storie di povertà e dolore.
Poi, un giorno, l’ho capito: perché solo a Natale?
Perché devono esistere ancora poveri ed emarginati che noi, con un atto di carità, ci sentiamo migliori nell’aiutare? Non sarebbe più giusto lottare per una società in cui nessuno abbia bisogno di elemosine? Dove l’assistenza non sia un favore, ma un diritto?
Forse, quel pranzo è solo una versione più elegante della vecchia carità elargita sui gradini della chiesa. E allora, il vero spirito natalizio dovrebbe spingerci non solo a riempire piatti una volta all’anno, ma a costruire un mondo dove non ci sia più bisogno di riempirli.
Che Natale sarebbe, se provassimo a cambiare davvero le cose?