Dietro ogni telefonata al CUP, c’è una storia, ci sono persone che cercano aiuto e risposte. A volte sono voci tranquille, altre arrabbiate o frustrate o impaurite per una brutta diagnosi. Ognuno con la sua vulnerabilità.
Chi risponde non indossa un camice, ma ogni giorno affronta il peso di comunicare che, per un’ecografia, ci vorranno sei mesi. Sei mesi che, per chi aspetta e non può permettersi la sanità privata, sono tanti. Ascolta impotente la delusione o la preghiera di guardare bene, se qualcuno rinuncia, perché in linea c’è chi ha bisogno davvero di quell’ecografia, Tac o risonanza.
Ed è spesso solo a gestire la situazione, senza strumenti adeguati né riconoscimento.
Parliamo tanto del burnout di medici e infermieri – giustamente – ma quanto sappiamo dello stress emotivo degli operatori CUP? Di chi lavora in prima linea, ascoltando ogni giorno il racconto di un sistema che fatica a stare al passo con i bisogni delle persone?
È ora di accendere i riflettori anche su di loro. Perché ogni operatore CUP (forse non proprio tutti) è una voce che tenta, tra mille difficoltà, di fare la differenza. Di trovare una soluzione, di rassicurare, di non spezzare quella fiducia già fragile.
Perché la strada verso la cura passa anche attraverso chi, al telefono, cerca di aiutare.